Censite 150 startup a livello internazionale che offrono soluzioni per processi di DT. Hanno raccolto 908 milioni di dollari di finanziamenti. Solo 3 sono italiane. La ricerca del Politecnico.
Cresce l’attenzione di manager, imprenditori, consulenti e si diffonde fra le imprese italiane il Design Thinking, l’approccio alternativo all’innovazione che si basa sull’abilità di integrare capacità analitiche, supportate da metodologie e tecniche quantitative, con attitudini creative, basate su processi di inferenza più sintetici e diretti. Un approccio sempre più pervasivo in vari contesti.
I risultati della ricerca dell’Osservatorio Design Thinking della School of Management del Politecnico di Milano presentata il 16 marzo a Milano nell’ambito del convegno “Design Thinking for Business: which kind of Design Thinking is right for you?” ci dicono che l’ecosistema italiano evidenzia interpretazioni originali ed innovative di tale paradigma in continua trasformazione.
150 startup analizzate, ma solo tre sono italiane
Sono state analizzate oltre 60 imprese che adottano il Design Thinking nei propri processi di innovazione. Fra queste, 47 basano i propri servizi di consulenza su tale paradigma: il campione è costituito da agenzie digitali, studi di design, società di consulenza strategica e di sviluppo tecnologico. Utilizzano il Design Thinking per risolvere problemi complessi e ambigui sfruttando capacità analitiche e intuitive, per realizzare e testare prodotti o servizi pilota, per coinvolgere più profondamente i lavoratori nel processo creativo o per ridefinire la vision aziendale. Sono 150, invece, le startup analizzate a livello internazionale che offrono strumenti e soluzioni a supporto dei processi di Design Thinking, per un finanziamento complessivo di 908 milioni di dollari (in media 7 milioni a testa). Solo tre sono attive in Italia, a conferma dell’arretratezza del contesto nazionale.
“Il Design Thinking è ciò che aiuta imprese e consumatori a orientarsi in un mondo sommerso dalla tecnologia e dall’informazione – afferma Roberto Verganti (Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business). Le imprese italiane non devono farsi trovare impreparate, perché a fare la differenza in un’epoca di crescente pervasività della tecnologia e dell’informazione sarà la capacità di coinvolgere i lavoratori nei processi creativi e nei cambiamenti organizzativi e creare prodotti e servizi che abbiano un valore e un significato per gli utenti”.
“Alla base del Design Thinking c’è un cambiamento di prospettiva in grado di supportare modelli ed atteggiamenti manageriali innovativi – commenta Francesco Zurlo, (Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business). Le imprese erano già consapevoli di non poter sopravvivere senza innovare, ma spesso tendevano a concentrarsi prevalentemente sullo sviluppo di nuove idee piuttosto che sulla loro capacità di creare valore. In questo senso la ricerca dimostra come il Design Thinking possa supportare non solo i processi creativi, ma anche la fase di esecuzione e l’accelerazione dei processi di innovazione”.
I modelli di Design Thinking
Dalla ricerca emerge come non esista un unico approccio al Design Thinking in grado di adattarsi a tutti i problemi posti dai processi di innovazione, ma che è possibile riconoscere quattro modelli principali. Il più adottato (scelto dall’81% delle imprese analizzate) è il Creative Problem Solving, l’approccio di Design Thinking per il quale le imprese innovano comprendendo i bisogni dell’utente e immaginando la più elevata gamma di soluzioni possibili per rispondere alle sue esigenze, per poi restringere il campo fino a trovare la soluzione dominante. Gli studi di design sono le aziende in cui l’adozione di questo approccio è più diffusa (94%), seguiti dalle società di sviluppo tecnologico (82%), dai consulenti strategici (69%) e dalle agenzie digitali (67%). Oltre ad essere molto diffuso, questo modello assume anche un peso rilevante nel portafoglio delle aziende: il 65,5% del fatturato annuale di queste imprese deriva da servizi basati su questo modello, di cui il 72,7% riguarda l’ambito Solution (che unisce i ricavi che derivano da servizi, 32,6%, prodotti, 21,0%, comunicazione, retail e esperienza), il 18,6% l’ambito Direction (di cui il 12,4% relativo al business model e il 6,2% a vision e brand) e l’8,7% l’ambito People (di cui il 6,0% per l’organizzazione e i processi e il 2,7% per la cultura aziendale).
Il secondo modello più adottato (49%) è la Sprint Execution, l’approccio che punta a realizzare un prodotto pronto per essere lanciato sul mercato e in linea con le esigenze degli utenti, che viene poi migliorato dopo aver analizzato l’interazione e la reazione dei consumatori. È utilizzato soprattutto dalle agenzie digitali (100%), mentre è preso molto meno in considerazione dai consulenti strategici (46%), dagli sviluppatori tecnologici (45%) e dagli studi di design (35%). Quasi metà del fatturato annuale di queste aziende (47,6%) è correlato a servizi basati su questo approccio, concentrato prevalentemente nell’ambito Solution (85,6%, di cui il 34,7% riguarda i prodotti e il 32,5% i servizi), mentre soltanto quote minoritarie riguardano gli ambiti Direction (9,7%) e People (4,7%).
Un’impresa su tre del campione (34%) utilizza la Creative Confidence, un modello che si differenzia dai primi due modelli perché punta principalmente sul coinvolgimento delle persone per creare e alimentare una cultura organizzativa e una mentalità adatte ad affrontare con fiducia i processi di innovazione. Questo approccio è adottato soprattutto dai consulenti strategici (54%), seguiti dagli studi di design (35%) e dagli sviluppatori tecnologici (27%), mentre non è presente fra le agenzie digitali. La minore diffusione di questo modello si riflette anche nel suo peso sui risultati finanziari delle imprese: i servizi basati su questo approccio valgono il 35% del fatturato annuale, di cui il 54,3% concentrato nell’ambito People (30,6% organizzazione e processi e 23,7% cultura aziendale), il 26,3% nell’ambito Solution (di cui il 16,2% nei servizi) e il 19,4% nell’ambito Direction (in cui spicca il 12,7% per il business model).
L’Innovation of Meaning, infine, è l’approccio col quale le imprese ridefiniscono la visione aziendale, i messaggi e i valori legati ai prodotti e ai servizi che offrono. Questo modello è adottato dal 34% del campione, con i consulenti strategici (46%) e gli studi di design (41%) che si mostrano più avanti nell’adozione, mentre appaiono meno interessate le agenzie digitali (33%) e gli sviluppatori tecnologici (9%). Anche in questo caso, alla minor diffusione corrisponde un minor impatto sui risultati finanziari: l’Innovation of Meaning vale il 34,7% del fatturato annuale delle imprese che la adottano, concentrato soprattutto nell’ambito Direction (41,7%, di cui il 23,9% business model e il 17,8% brand e vision) e Solution (36,7%), in cui spiccano i servizi col 16,6%, mentre è più marginale la quota che deriva dall’ambito People (21,6%).
“La ricerca evidenzia come le imprese adottino approcci di Design Thinking ancora prevalentemente orientati a creare nuove idee, prodotti e servizi – analizza Claudio Dell’Era (Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business). Ma in un mondo che cambia a grande velocità e in cui c’è abbondanza di opzioni, senza valori e scopi condivisi, le imprese rischiano di ricadere nel paradosso delle idee: esplorare molte direzioni innovative può ridurre la capacità di innovare, perché nel frattempo i problemi ai quali vengono trovate soluzioni hanno perso di significato. Innovare la cultura, i valori e il significato di prodotti, servizi e modelli di business è la sfida emergente del Design Thinking”.
Le startup, 150 censite
Sono 150 le startup censite dall’Osservatorio a livello internazionale a supporto dei processi di Design Thinking, per un finanziamento complessivo di 908 milioni di dollari (circa sette milioni in media per ogni startup). Gli Stati Uniti sono l’area più avanzata, con 86 startup, il doppio di quelle presenti in Europa (41). Soltanto tre delle startup analizzate operano in Italia.
“L’ecosistema delle startup a supporto dei processi di Design Thinking è ancora immaturo a livello internazionale e ancora di più in Italia – afferma Cabirio Cautela (Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business). Il fatto che solo tre delle startup analizzate operino nello Stivale conferma che i fornitori italiani di Design Thinking siano ancora obbligati a cercare all’estero nuove opportunità e collaborazioni per migliorare i propri processi di innovazione. Tuttavia, pur operando in un contesto arretrato, la maggior parte delle startup (84) conta più di 10 addetti e sembra dunque dotata di una consolidata struttura organizzativa. Un segnale che fa ben sperare in sviluppi positivi nel prossimo futuro”.
Le soluzioni più offerte dalle startup sono quelle di Creative Confidence (66 startup, il 44%), seguite dalle soluzioni di Creative Problem Solving (34 startup, il 23%), da quelle di Sprint Execution (32 startup, il 21%) e da soluzioni di Innovation of Meaning (18 startup, il 12%).
L’analisi del mondo delle startup – afferma Luca Gastaldi (Direttore dell’Osservatorio “Design Thinking for Business) rivela un quadro frastagliato, in cui il Design Thinking è ancora un fenomeno complesso e multiforme, in cui convivono diverse applicazioni che dipendono sia dalla scala del progetto innovativo sia dalle diverse filosofie che guidano il settore. Il dato più interessante è che la maggior parte delle startup offra soluzioni di Creative Confidence, perché testimonia l’evoluzione del Design Thinking da approccio all’innovazione orientato principalmente alla creazione di nuovi prodotti a strumento per l’innovazione a un livello più alto, organizzativo e manageriale”.
[Fonte: economia digitale | StartupItalia!]